Quando nei Balcani vi è un momento di tensione tra Stati confinanti ricorrono spesso due elementi che lo denotano: il ruolo di Stati terzi e quello della minoranza nazionale la cui etnia è la stessa dello Stato confinante con cui si sta sviluppando la tensione. È ciò che sta accadendo in questi mesi in Kosovo, dove se è stato facile ravvisare l’esistenza di questi due elementi, ma è altrettanto difficile misurarne la portata.
In breve, ricordiamo che ad aprile in Kosovo ci sono state le elezioni municipali e nei comuni al Nord del Paese la maggioranza di etnia serba ha boicottato le elezioni. Causa del boicottaggio la questione delle targhe serbe nel nord, che di fatto stavano per essere sostituite da quelle albanesi. Nel nord i cittadini di etnia serba hanno messo in atto proteste davanti al palazzo municipale sventolando una enorme bandiera serba. Le tensioni sono sfociate in incidenti contenuti dai soldati della missione Nato “Kosovo Force” (KFOR).
Altre tensioni si sono verificate a metà giugno quando tre membri delle forze dell’ordine kosovare albanesi sono state tratte in arresto da forze speciali della Serbia perché accusate di avere oltrepassato i confini.
A che punto siamo oggi? Il 28 giugno l’Ue aveva imposto delle misure restrittive e temporanee, che hanno temporaneamente sospeso il lavoro per l’Accordo di stabilizzazione e associazione, con i rappresentanti del Kosovo non più invitati a eventi di alto livello. La sospensione è stata estesa anche alla programmazione dei fondi per il Kosovo per il 2024, insieme alle visite bilaterali, escluse quelle per la risoluzione della crisi nel nord del Kosovo in ambito del dialogo facilitato dall’Ue.
Il piano in quattro tappe per il Kosovo
A metà luglio c’è stato un incontro tra il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, da questo incontro è uscito un piano in quattro tappe per la de-escalation delle misure previste dall’Ue.
Queste le tappe previste:
1) L’annuncio, da parte del governo del Kosovo, dell’impegno per evitare un’escalation della situazione, ovvero nessuna misura che potesse inasprire ulteriormente la situazione esistente nel nord del Kosovo. Kurti ha previsto la riduzione della presenza della polizia del 25% nei quattro comuni a maggioranza serba
2) La Dichiarazione da parte albanese che dovranno essere svolte le elezioni
3) La predisposizione per l’organizzazione delle stesse elezioni
4) Dopo i primi tre passi, l’invito da parte dell’Ue ai negoziatori di Serbia e Kosovo a Bruxelles, per proseguire nel percorso di normalizzazione delle relazioni”
Serve un clima più disteso
Ci sono stati gli incontri tra Miroslav Lajcak con Besik Bislimi per il Kosovo e Petar Petkovic per la Serbia, ma come dichiarato da più parti i risultati non sono stati immediati. Bislimi che è pure vice-primo ministro ha anticipato le dichiarazioni (“niente elezioni senza revoca delle misure restrittive”) le dichiarazioni di Albin Kurti. Il primo ministro del Kosovo aveva ribadito che proprio in virtù dell’accordo raggiunto, le elezioni dovrebbero svolgersi in un clima più disteso, eliminando innanzitutto le note misure, “poiché non è una questione di condizione che noi poniamo, ma di ordine logico delle cose”.
L’ombra di Mosca
In questo periodo di tensioni, la stampa del Kosovo e dell’Albania dà spazio alle dichiarazioni di un osservatore di eccezione, John Bolton, già consigliere per la sicurezza nazionale dell’ex presidente degli Stati Uniti Trump. Bolton senza giri di parole afferma che luogo di nascita delle attuali tensioni è il governo di Mosca. Egli sostiene che si sta facendo di tutto per convincere l’opinione pubblica mondiale che tra Belgrado e Pristina la diplomazia sia inutile. Dalle parole dell’ex consigliere presidenziale sembra quasi che la strategia miri ad allontanare la concentrazione dalla guerra in Ucraina.
Le dichiarazioni dei leader dei Balcani
Ma in questo particolare momento non ci si può permettere un’altra crisi che possa sfociare in un conflitto, in particolare nei Balcani. Se prevenire è meglio che curare, questo assunto vale pure per la politica internazionale. Questo è ciò che deve aver pensato il premier albanese Edi Rama che ha proposto un tavolo delle trattative ad alto livello e con vari membri.
Da parte serba, il presidente Alexander Vucic ha definito il Kosovo come il “bebè che l’Occidente vuole proteggere ad ogni costo” anche se il costo da pagare è un trucco, la messinscena di fare apparire i cittadini serbi come aggressori di qualche incidente creato ad hoc che funga da pretesto, appunto, per scatenare la difesa degli interessi occidentale nell’area.
Il primo ministro Kurti ha recentemente rilasciato un’intervista al giornale croato “vecernje list” in cui, da politico accorto, sposta il campo di battaglia riportando l’asticella al livello presidenziale e definendo il Presidente serbo Vucic come una persona innervosita dalla democrazia, che vorrebbe farsi re. Ora si attende la prossima mossa.
Per alcuni osservatori internazionali la soluzione ideale sarebbe un faccia a faccia tra Serbia e Kosovo ma ogni volta che i tempi sembrano maturi per un salto di qualità in questa direzione c’è sempre puntuale l’imprevisto che come nel Gioco dell’Oca fa fare passi indietro o come in quello del Monopoli ti fa saltare il turno.
Foto di copertina GEORGI LICOVSKI