Sulla opzione di rifornire l’Ucraina delle Cluster Munitions, le c.d. “bombe a grappolo”, l’Italia, come d’altronde anche le Nazioni Unite, ha manifestato la sua contrarietà mantenendo una posizione coerente con la scelta compiuta con la sottoscrizione della Convenzione di Oslo sulla messa al bando delle munizioni a grappolo, fatta a Dublino il 30 maggio 2008, ratificata con la legge 14 giugno 2011, n. 95 (GU Serie Generale n. 153 del 4 luglio 2011).
Non solo la legge di ratifica è particolarmente categorica nel disporre il divieto di produzione, lo stoccaggio e la distruzione di tali munizionamenti, ma anche la recente legge 9 dicembre 2021, n. 220 (GU Serie Generale n.303 del 22.12, 2021) ha disposto misure nei confronti delle imprese aventi sede in Italia o all’estero che, direttamente o tramite società controllate o collegate, siano interessate alla produzione di munizioni e “submunizioni” a grappolo, come delle mine antipersona, escludendole da ogni bando e finanziamento pubblico.
La regolamentazione delle cluster bombs
Come documenta il sito ufficiale della Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Onu e le Organizzazioni internazionali a Ginevra, l’Italia, che peraltro non produce da tempo questo tipo di armamenti, ha partecipato attivamente al processo avviato a Oslo nel febbraio 2007, basandosi essenzialmente sui principi introdotti con la Convenzione di Ottawa sul bando delle mine antipersona.
Come si evince dal preambolo della Convenzione di Oslo sono due i principi a fondamento del divieto posto all’utilizzo delle bombole a grappolo: 1) il pericolo concreto e diretto, documentato in numerosi dati di esperienza, che il loro impiego coinvolga aree diffuse in maniera indiscriminata, non circoscritte ai soli obiettivi militari, con l’ inevitabile estensione alle aree urbanizzate e alla popolazione civile; 2) la circostanza, altrettanto documentata, dell’elevata possibilità che permangano residui inesplosi, i cui effetti letali sono simili a quelle delle mine anti-uomo, con uccisioni e gravi mutilazioni dei civili e anche l’ostacolo alla ricostruzione e allo sviluppo economico e sociale delle fasi post-conflitto.
Le Cluster Munitions o Cluster Weapons sono una tipologia di armi c.d. “a saturazione d’area”, costituite da un grosso vettore/proiettile che, lanciato da aerei o elicotteri, artiglierie o lanciarazzi, nell’esplodere a mezz’aria diffonde a largo raggio, anche oltre i 40 km, le “sub-munizioni”, i numerosi ordigni che arrivano anche a 70 bomblets, contenuti al suo interno. Sono state largamente adoperate in Kosovo, Afghanistan, Iraq, Siria, Libano e nel Nagorno Karabakh.
Per quanto concerne l’attuale conflitto, secondo Human Rights Watch sarebbero state usate anche dagli ucraini, ma sono stati documentati soprattutto i bombardamenti effettuati dai russi che hanno coinvolto drammaticamente la popolazione ucraina. Per l’organizzazione indipendente la Federazione Russa è responsabile di centinaia di attacchi con bombe a grappolo in almeno 10 delle 24 regioni dell’ Ucraina da febbraio 2022 a oggi, che hanno causato centinaia di vittime civili nelle regioni di Chernihivska, Donetska, Kharkivska, Khersonska e Mykolaivska. Un rapporto dettagliato all’esame della Corte penale internazionale riguarda l’attacco alla stazione ferroviaria di Kramatorsk dell’ 8 aprile 2022, dove un missile balistico russo Tochka-U armato di munizioni a grappolo ha causato 58 morti e oltre 100 feriti tra la popolazione civile.
Fatta questa premessa, sarebbe tuttavia ingiustificato alimentare una spaccatura dell’Italia rispetto alle decisioni assunte dagli Stati Uniti nell’aderire alla richiesta di cluster bombs insistentemente sollecitata dall’Ucraina in questa fase delicata dell’offensiva, che, come ha lasciato intendere lo stesso Zelensky, potrebbe essere decisiva per giungere al tavolo dei negoziati in posizioni di maggior tutela del paese vittima dell’aggressione.
Le cluster bombs nel contesto ucraino
Valgono qui alcune considerazioni generali sullo status del divieto posto dalla Convenzione di Oslo nell’attuale sistema del diritto internazionale. Come si è in parte evidenziato, il diritto internazionale umanitario, inquadrato anche come diritto internazionale dei conflitti armati, in generale vieta o limita l’uso di talune tipologie di armi, in particolare quelle che causano ferite o sofferenze inutili, o che determinano danni gravi, estesi e persistenti all’ambiente naturale, o anche che non possono essere dirette esclusivamente contro un obiettivo militare determinato o il cui effetto non può essere limitato oltre il vantaggio diretto e circoscritto di una “necessità militare”.
Quanto alla validità universale e a un inquadramento nel diritto che possa dirsi anche “consuetudinario” – quindi prevalente anche rispetto ai trattati – purtroppo le condizioni attuali delle adesioni alla Convenzione di Oslo non lo consentono. Entrata in vigore il 1° agosto 2010, ad oggi essa è stata ratificata da 111 Stati, ma tra questi non figurano importanti nazioni come USA, Russia, Cina, India, Pakistan, Brasile, Israele, Egitto, oltre che la stessa Ucraina.
Inoltre, come osserva Ronzitti (Diritto internazionale dei conflitti armati, 2021), a differenza delle mine antipersona che la Convenzione di Ottawa del 1997 proibisce tassativamente, il divieto della Convenzione di Oslo non è assoluto: non opera se si tratta di ordigni perfezionati con congegni autodistruttivi o disattivanti, che evitino i residuati inesplosi, o consentano che il loro impiego non risulti diffuso in maniera indiscriminata. Risulta inoltre che lo stesso Dipartimento di Stato USA abbia posto delle precise limitazioni d’impiego individuando la tipologia di cluster bomb riconducibile alle Dual-Purpose Improved Conventional Munitions, lanciabili solo con obici da 155 e dai lanciarazzi Himars. Le Dpcim saranno inoltre espressamente selezionate dagli Usa in base al Cluster Munition Civilian Protection Act approvato dal Congresso nel 2017 che vieta il trasferimento di munizioni con un tasso di fallimento superiore all’1%.
Va pure compresa l’insistenza con cui l’Ucraina ha sollecitato il ricorso alle armi a grappolo. Posto che l’Ucraina sta difendendo la sua popolazione e mira non a invadere la Russia ma a riprendere i territori perduti, la sfida della controffensiva ucraina ora è sicuramente decisiva. Il quadro di battaglia riguarda un fronte di 1800 chilometri, con almeno 20.000 km quadrati e una organizzazione della difesa dei russi articolata su tre linee difensive, con campi minati, trincee, bunker, mezzi corazzati e supporto aereo, artiglierie e missili.
L’Ucraina ha inoltre già dimostrato di essere sostenuta da un gruppo di validi esperti in diritto internazionale che in genere hanno ben orientato le forze armate regolari all’uso proporzionato della forza, e anche per la richiesta delle armi grappolo ha formulato valide precisazioni. Il Ministero della Difesa ucraino ha infatti partecipato che impiegherà le armi sulla base di cinque principi e limitazioni: 1) non saranno usate sul territorio russo, posto che il loro impiego è previsto sui territori ucraini occupati dove i russi si sono trincerati a difesa, 2) non saranno interessate le aree urbane; 3) sarà tenuto un registro che traccerà il loro utilizzo anche al fine di favorire le operazioni di bonifica; 4) saranno previsti uno status di priorità per lo sminamento delle aree interessate e un flusso di comunicazioni sul loro impiego ai vari partner cooperanti con l’Ucraina.
Alla luce di quanto sopra, posto che la comunità internazionale potrà vigilare sulla osservanza di tali prescrizioni, sarà necessario che la scelta dell’Italia di non fornire le bombe a grappolo – anche perché non le produce – non venga strumentalizzata per diffondere la percezione di elementi divisivi. La scelta dell’Occidente specie in questo momento deve rimanere ferma nel sostenere un Paese aggredito e compiere atti concreti di deterrenza per un futuro di stabilità in Europa.
Foto di copertina EPA/MARIA SENOVILLA