Con una mossa in due tempi, l’Arabia Saudita ha riportato la Siria nella Lega Araba e ha ripreso le relazioni diplomatiche con Damasco. La scelta di Riyadh racchiude realismo e calcolo. Realismo perché i sauditi fanno, alla fine, i conti con la sopravvivenza politica di Bashar Al Assad, rimasto “in sella” grazie al sostegno materiale di Hezbollah, Iran e Russia. Calcolo perché la ricucitura con la Siria permette al regno saudita di proseguire nel percorso di de-escalation regionale presentandosi, di nuovo, nelle vesti del mediatore. La mediazione dell’Arabia Saudita ha raggiunto l’obiettivo di reintegrare – almeno simbolicamente – la Siria ancora in guerra nel concerto dei Paesi arabi: ma le prospettive politiche ed economiche rimangono indefinite.
Questo è solo l’ultimo esempio della “frenesia diplomatica” che sta caratterizzando la politica estera saudita, dopo anni di polarizzazione e assertività militare. Adesso, per il principe ereditario Mohammed bin Salman Al Saud, stabilità e cooperazione regionale sono infatti funzionali al perseguimento degli obiettivi del regno in economia (diversificazione post-oil) e in Medio Oriente (egemonia). Non sempre, però, i sauditi riescono a centrare lo scopo. La loro mediazione incontra molte difficoltà in Yemen e in Sudan, contesti assai diversi – anche per il ruolo saudita – ma ora accomunati dalla ricerca della “performance diplomatica” da parte di Riyadh. E diversa è anche la reazione degli Stati Uniti all’attivismo dei sauditi nelle crisi regionali ancora aperte.
Perché i sauditi riaprono ad Assad
Il 18 aprile scorso, la visita del ministro degli esteri saudita Faisal bin Farhan nella capitale siriana (preceduta da quella della controparte a Riyadh), aveva evidenziato il riavvicinamento in corso. D’altronde, secondo lo stesso ministro degli Esteri, nel Golfo e non solo stava crescendo la consapevolezza che l’isolamento della Siria non stesse contribuendo alla sicurezza mediorientale. Dunque, il devastante terremoto di febbraio, con gli aiuti umanitari dal regno alle aree siriane sotto il controllo governativo, aveva solo accelerato un processo già avviato. L’Arabia Saudita aveva interrotto i rapporti diplomatici con la Siria nel 2012, a causa della feroce repressione del regime di Assad nei confronti delle proteste popolari e poi dell’opposizione siriana. Da parte dell’Arabia Saudita e delle monarchie del Golfo – che nella prima fase della guerra civile sostennero attivamente le forze sunnite d’opposizione, fronte poi egemonizzato dalla Turchia – il giudizio politico su Assad non è cambiato.
A cambiare è stato invece il contesto regionale, nonché le dinamiche transnazionali di sicurezza. Le motivazioni che spingono i sauditi a riaprire il dialogo con Assad sono soprattutto tre: la stabilità regionale, i rifugiati, il traffico di droga. Nel marzo 2023, l’Arabia Saudita ha riallacciato le relazioni diplomatiche con l’Iran: tornare ora a parlare con il principale alleato di Teheran permette ai sauditi di entrare politicamente in un teatro fin qui precluso.
I milioni di profughi siriani fuggiti dalla guerra e riversatisi anche nei paesi arabi limitrofi mettono sempre più alla prova la tenuta economico-sociale dei paesi ospitanti, come nel caso della piccola Giordania che ne ha registrati quasi 700 mila. E poi c’è la questione del traffico di droga, in particolare del captagon, un’anfetamina di cui la Siria è diventata primo produttore e distributore proprio durante la guerra: destinazione principale i mercati del Golfo. Il regime siriano è direttamente coinvolto nel traffico illecito, anche attraverso gli Hezbollah libanesi. Più limitato l’impatto del dialogo sulla ricostruzione. Il Caesar Syria Civilian Protection Act, ovvero il pacchetto di sanzioni che gli Stati Uniti hanno posto sul regime di Damasco dal 2019, si applica anche ai paesi terzi: ciò ridimensiona, per il momento, le aspettative economiche del ritorno di Damasco nella Lega Araba.
Il sì di Emirati e Oman, i distinguo del Qatar
Con questa mossa, l’Arabia Saudita intende altresì riprendersi la guida delle relazioni tra il Golfo e il Levante arabo. Infatti, anche stavolta, gli Emirati Arabi Uniti avevano anticipato i vicini, riaprendo l’ambasciata in Siria nel 2018, come il Bahrein. Invece, era stato l’Oman a rimandare per primo l’ambasciatore a Damasco nel 2020. Poi sono arrivate le visite di Assad in Oman e negli Emirati, subito dopo il terremoto. Mentre il Kuwait mantiene una linea più cauta (l’emirato era stato il fulcro del finanziamento privato all’opposizione armata siriana), il Qatar continua a mostrarsi critico. Pur non avendo ostacolato il voto della Lega Araba, Doha – già vicino alla Fratellanza Musulmana locale – non intende cambiare posizione né normalizzare i rapporti con Damasco, ribadendo che la Siria necessita di una soluzione politica. La fermezza della posizione qatarina è apprezzata dagli Stati Uniti, fin qui assai contrari a riaccogliere Assad.
La mediazione saudita in Yemen e Sudan
Gli statunitensi sostengono invece la mediazione dell’Arabia Saudita nelle altre due crisi in cui Riyadh vuole essere protagonista: Yemen e Sudan. Ma le prospettive – seppur in contesti diversi – sono comunque difficili. L’ottimismo che circondava il dialogo diretto fra gli houthi e i sauditi si sta ridimensionando. Al di là dello scambio di prigionieri, il primo giro di colloqui non ha raggiunto fin qui risultati concreti e, a detta dell’ambasciatore di Riyadh in Yemen, le parti yemenite rifiutano di sedersi insieme al tavolo negoziale. A irritare il governo riconosciuto e i secessionisti del sud c’è anche l’atteggiamento di Riyadh che si pone come mediatore, escludendoli, quando, in realtà è parte del conflitto. In Sudan, Arabia Saudita e Stati Uniti stanno negoziando, insieme, fra esercito e Forze di Supporto Rapido, per frenare lo scontro tra fazioni militari. Gli obiettivi del tavolo di Jedda sono però assai limitati e, fin qui, si sono concretizzati solo in brevi tregue umanitarie subito violate.
In un quadro regionale ancora segnato da aree di forte instabilità, l’Arabia Saudita prova a intestarsi il ruolo del mediatore. Anche rispetto allo spinoso dossier siriano, riprendendosi così la leadership del mondo arabo, per anni frammentata causa divisioni e rivalità aperte. L’ultima (per ora) trasformazione politica di Mohammed bin Salman.
Foto di copertina EPA/SYRIAN PRESIDENT OFFICE HANDOUT