Per gran parte dei media nazionali e internazionali, lo Yemen è a un passo dalla pace, dopo oltre otto anni di guerra. Sono due le notizie che corroborano questa previsione: i colloqui diretti fra gli houthi (gli insorti sciiti del nord yemenita sostenuti dall’Iran) e l’Arabia Saudita, nonché la ripresa delle relazioni diplomatiche fra Riyadh e Teheran. Eppure, chi segue da vicino il paese non riesce, purtroppo, a essere così ottimista.
Le due notizie favoriscono certamente il percorso diplomatico. Eppure, né i rappresentanti del governo riconosciuto dello Yemen né del Consiglio Presidenziale – ovvero i legittimi organi istituzionali del paese – sono stati fin qui invitati ai negoziati tra sauditi e houthi. Se infine venissero convolti, il rischio è che essi debbano accettare il ‘perimetro della pace’ già delineato dagli altri, con la possibilità che il malcontento e il senso d’esclusione generino nuove violenze, soprattutto nelle regioni secessioniste meridionali.
C’è poi la questione houthi-Iran. Alleati sì – e assai più stretti di prima dell’inizio della guerra – ma con un rapporto dialettico, lontano dalla dinamica patron-client (sponsor-cliente) spesso raccontata. Gli houthi non prendono ordini da Teheran e si muovono nel solco di un’agenda locale. Certo, l’Iran li rifornisce di armi, violando l’embargo Onu: questa è la leva che Teheran potrebbe utilizzare (se volesse) per spingere gli houthi alla trattativa, anche se l’economia del loro “quasi-Stato” non dipende dalla Repubblica Islamica.
Sauditi e houthi a colloquio
Gli houthi e i sauditi si sono incontrati a Sanaa: è la prima volta che una delegazione dell’Arabia Saudita si reca ufficialmente nella capitale yemenita, ancora controllata dal movimento-milizia. Le parti hanno annunciato nuovi colloqui bilaterali. Tra gli obiettivi, il prolungamento di sei mesi della tregua nazionale (mediata dall’ONU e scaduta nell’ottobre 2022) e il cessate il fuoco, che avvierebbe una fase biennale di transizione. Si discute della fine dell’embargo saudita sui porti e gli aeroporti delle aree a controllo houthi, con Riyadh che si farebbe inoltre carico degli stipendi pubblici.
La stretta di mano fra gli houthi e i sauditi evidenzia quanto l’Arabia Saudita abbia dovuto rivedere i propri obiettivi in Yemen: non più la sconfitta del movimento-milizia e il recupero dei territori occupati, ma la coesistenza con il loro “quasi-Stato”. Riyadh ha scelto il bilaterale e non il tavolo allargato e inclusivo di tutte le fazioni yemenite perché ha una priorità: mettere in sicurezza il confine saudita-yemenita e scongiurare nuovi attacchi houthi, con missili e droni, contro il regno. I sauditi vogliono siglare un accordo adesso, senza aspettare l’esito, imprevedibile, del negoziato tra yemeniti che l’Onu sta provando da mesi a organizzare.
Intanto, l’Arabia Saudita “resuscita” il progetto del muro da 900 chilometri per sigillare l’intero confine sud: avviato nel 2003, fu bloccato dalle proteste delle popolazioni locali abituate a muoversi tra Arabia e Yemen per legami familiari e attività economiche (allevatori inclusi): una questione spinosa, distinta dall’insorgenza degli houthi.
La fretta dei sauditi di concludere la missione militare, cambiando così anche il racconto della loro presenza in Yemen, è soltanto un vantaggio politico per gli houthi. Di fatto, Riyadh li ha riconosciuti come interlocutori. L’Arabia Saudita continuerà a essere un attore fondamentale nel paese, ri-focalizzandosi però dall’impegno militare a quello economico. Che incentivo avrebbero, a questo punto, gli (ex) insorti a condividere il potere nel nord con le altre fazioni yemenite, dato che un eventuale ‘patto parallelo’ con i sauditi (ovvero basta attacchi contro il regno) sarebbe per loro già una garanzia?
Il ruolo dell’Oman (e non più del Qatar)
In questa trattativa, l’Oman sta giocando un ruolo significativo: mediatori omaniti hanno accompagnato la delegazione saudita a Sanaa dopo aver avviato, nell’ottobre 2022, il contatto fra le parti. D’altronde, nel dopo-Qaboos, il Sultanato ha ritrovato una buona intesa, di visione geopolitica ed economica, con il regno saudita e ha un canale di dialogo con gli houthi: parte della dirigenza del movimento-milizia vive infatti a Muscat. Senza dimenticare lo storico buon vicinato fra Oman e Iran. Per il Sultanato, la sicurezza del confine occidentale – da sempre attraversato dalle rotte dell’economia informale e del contrabbando – è ancora il primo obiettivo in Yemen. Tuttavia, la politica estera omanita sta assumendo in Yemen una fisionomia più visibile rispetto al passato, come sottolineato dai diversi viaggi dei suoi emissari a Sanaa.
L’attivismo dell’Oman ha sostituito la diplomazia del Qatar. Forse, dopo gli anni difficili della crisi nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), i qatarini sapevano di non poter ambire qui a un ruolo centrale di mediazione: il contesto è molto delicato e il teatro di guerra è interno al Golfo. Invece, nel 2010, dopo le sei “battaglie di Saada” (2004-2010) combattute nel nord yemenita, fu Doha a mediare il cessate il fuoco fra gli houthi e l’allora governo di Ali Abdullah Saleh, firmato proprio in Qatar.
Prigionieri e generali, il legame con il Sudan
Oltre 900 prigionieri di guerra sono stati liberati (14-17 aprile), con la mediazione Onu e il sostegno logistico della Croce Rossa Internazionale. Un primo passo verso la ricostruzione della fiducia reciproca: anche il governo riconosciuto dello Yemen è stato parte della trattativa. Tra i prigionieri liberati, ci sono anche dei sudanesi. Il Sudan ha aderito fin dal 2015 alla Coalizione militare a guida saudita: fino a 15 mila sudanesi di esercito e Forze di Supporto Rapido (le fazioni militari oggi in guerra tra loro a Khartoum) sono stati dispiegati in Yemen, soprattutto nelle aree più rischiose, spesso a protezione delle truppe degli Emirati Arabi Uniti. Un dettaglio che racconta gli intrecci e le gerarchie di potere tra Penisola arabica e Corno d’Africa, via Yemen. In una fase di nuove instabilità nel quadrante del Mar Rosso, sarebbe più che mai significativo un ridimensionamento del conflitto yemenita. È forse questo, più che una reale pacificazione, l’obiettivo ora possibile per lo Yemen.
Foto di copertina EPA/YAHYA ARHAB