Quando nel 1960 l’architetto Oscar Nieymeyer progettò Brasília, costruì le due cupole del Palazzo del Congresso una rivolta verso il basso e l’altra rovesciata verso l’alto. La seconda, sede della Camera, è realizzata con il vertice aperto, simbolicamente a tutte le ideologie e opinioni del popolo brasiliano, che il Congresso rappresenta.
Le crisi dal Perù al Brasile
L’8 gennaio, su quel tetto, il mondo ha visto aggirarsi tra le cupole i sostenitori dell’ex-presidente Jair Bolsonaro, mentre invadevano e distruggevano gli edifici governativi, supplicando i militari di istituire un colpo di stato.
Solo un mese fa, l’ormai ex presidente del Perù Pedro Castillo si imbarcava in un goffo tentativo di golpe, per chiudere il Congresso e governare per decreto. Abbandonato dai suoi ministri e dall’esercito, Castillo è stato arrestato, ed è in attesa di giudizio. Ma da quel fatidico 7 dicembre, le piazze di Lima, Ayacucho e altre città peruviane sono state teatri di scontri tra polizia, manifestanti conservatori che chiedono “pace” e i sostenitori di Castillo che vogliono il loro presidente libero.
Il nuovo governo di Dina Boluarte ha annunciato lo stato di emergenza e pianificato elezioni anticipate per placare le proteste. L’insolita iniziativa personale di Castillo è il culmine di una crisi politico-istituzionale in cui il Perù si trova da decenni, e può essere però letta attraverso un’allarmante tendenza regionale.
Pericolo eversione sul continente
I governi di sinistra della nuova ‘marea rosa’ latino-americana non hanno nemmeno finito di insediarsi nei palazzi presidenziali, e la regione pullula di movimenti eversivi che tentano, spesso violentemente, di sovvertire le istituzioni. Se in Perù e Cile le proteste popolari ne hanno raccolto parzialmente le istanze, in Brasile e Bolivia violenze e proteste sono emerse da crisi di legittimità del processo elettorale. Oltre all’economia, il cambiamento climatico e le grandi questioni geopolitiche, i nuovi governi della regione potrebbero dover affrontare un anno di instabilità interna dei loro sistemi democratici. E le motivazioni di chi li vuole minare sono profonde e molteplici.
Innanzitutto, la storia dell’America Latina insegna che parlare dei gruppi che vogliono sovvertire l’ordine dello stato come solo di “destra” o “sinistra” è pericolosamente limitante. Mentre il Perù è sull’orlo di una guerra civile con tutte le fazioni coinvolte, in Brasile c’è uno schieramento che a viso aperto trama per sovvertire lo stato.
La vittoria di Lula in ottobre per meno di due punti percentuali, i brogli inesistenti denunciati da Bolsonaro e il tentativo del partito avversario di screditare la validità dell’elezione hanno alimentato una crisi di legittimità, culminata nel mancato passaggio di consegne al nuovo governo da parte di Bolsonaro, oggi a Miami.
La violenza dei supporter di Bolsonaro a Brasília ha un doppio valore pratico e simbolico. Al Congresso di domenica non si lavorava, Lula era fuori città, e Bolsonaro non sembra essere stato parte dell’organizzazione: difficile pensare si sia stato un colpo di stato. Come quando a centinaia si erano accampati fuori dalle basi militari per chiedere un golpe dell’esercito, lo scopo dei bolsonaristi è il caos, che nella loro idea non lascerebbe scelta alle forze armate: intervenire con un golpe per restaurare l’ordine e mettere fine al governo Lula.
L’aspetto simbolico è la violenza con cui i “terroristi”, come li chiamano stampa e governo brasiliani, hanno vandalizzato la sede e i simboli della democrazia del loro paese, che non li rappresenta più. Sembra che prima dell’assalto la polizia avesse fermato pullman da tutto il Brasile diretti nella capitale: l’8 gennaio dimostra così che i movimenti eversivi bolsonaristi sono organizzati, radicati e pericolosi.
Inoltre, proprio in questi giorni, l’arresto del leader di opposizione in Bolivia ha scatenato delle proteste da parte dei contestatori del governo di Luis Arce. La situazione politica non si è mai davvero stabilizzata dopo le elezioni del 2019, i sospetti di golpe e la doppia destituzione degli ex presidenti Evo Morales e Jeanine Áñez.
Resta invece da vedere cosa sarà del movimento nato in Cile dalle proteste del 2019, che chiedevano (anche violentemente) una riscrittura del ruolo dello stato cileno e della costituzione. Dopo l’elezione dell’attuale presidente Gabriel Boric, il processo costituente è stato ampiamente bocciato da un referendum, e gli stessi cittadini sono scesi in piazza di nuovo, questa volta in festa. Un nuovo tentativo di riscrittura vorrebbe portare a una nuova costituzione a novembre 2023, ma il Cile resta spaccato e bollente.
America Latina: Democrazia in pericolo?
Nonostante l’America Latina sia storicamente soggetta a proteste, rivolte e cambi di regime, sembra che il 2022 abbia lasciato la regione in balia di un’ondata di movimenti di diversa natura politico-sociale. Ciò che li accomuna è una spiccata insoddisfazione per lo status quo e la gestione della cosa pubblica, assieme all’idea che per cambiare le cose non bastino i canali istituzionali.
La democrazia del continente è sicuramente in crisi, ma si può definire oggi, all’apertura del 2023, in pericolo? I motivi che trainano i movimenti eversivi descritti si ripresentano dal canale di Panama alla Patagonia: polarizzazione politica, istituzioni inefficienti che non raccolgono le istanze dei cittadini, situazione macroeconomica instabile, povertà e disuguaglianze rampanti. Terreno fertile dunque per populismi personalisti come quelli di Bolsonaro e Castillo, talvolta a confronto con gli autoritarismi sempre più presenti nella regione (Venezuela, Cuba, Nicaragua, El Salvador). Basti pensare che negli ultimi quattro anni di elezioni libere in America Latina, per 15 volte consecutive ha vinto l’opposizione.
Nel 2023 l’America Latina, i cui maggiori attori sono temporaneamente governati dagli alleati ideologici della nuova “marea rosa”, dovrà provare a ribaltare questi trend politici e migliorare la situazione economico-sociale, combattendo con il pragmatismo per salvare la propria democrazia in crisi. Le prime sfide sono già dietro l’angolo. A febbraio gli ecuadoregni votano una riforma costituzionale, mentre quella di dicembre in Messico ha riversato nelle piazze i primi dubbi sulla legittimità democratica delle intenzioni del presidente López Obrador. Il faro della democrazia è invece puntato sull’Argentina, flagellata dall’inflazione e divisa come non mai, che il prossimo ottobre andrà alle urne. Per i sondaggi alla Casa Rosada andrà, come da tendenza, l’opposizione.
Foto di copertina EPA/ANDRE BORGES