Meno di 24 ore dopo la ricandidatura di Donald Trump alla nomination repubblicana per le presidenziali americane del 2024, il Senato degli Stati Uniti, con 62 voti a favore e 37 contrari, ha fatto un passo probabilmente decisivo per garantire la legalità dei matrimoni fra persone dello stesso sesso, contro le interferenze di una Corte Suprema fortemente conservatrice sui diritti civili e di genere.
La legge è stata approvata anche da 12 senatori repubblicani. Il voto – scrive il New York Times – segnala un cambiamento nella cultura e nella società: il matrimonio fra persone dello stesso sesso, fino a non molto tempo fa un tema politicamente divisivo, è ormai divenuto largamente accettato. Ma i sostenitori di Trump – un elettorato di uomini bianchi mediamente poco istruiti, fra cui molti fondamentalisti religiosi – sono tendenzialmente ostili alla pratica.
È un segno di come l’Unione in cui il magnate conduce la sua terza campagna elettorale, sperando di diventare, dopo Grover Cleveland, il secondo presidente a ottenere due mandati non consecutivi, sia diversa da quella che gli diede il successo nel 2016, pur con tre milioni di voti popolari in meno della sua rivale Hillary Rodham Clinton. Cleveland, un democratico, custode della Costituzione, fu eletto nel 1884; fu più votato del suo rivale repubblicano Benjamin Harrison nel 1888, ma ebbe meno Grandi Elettori e perse la Casa Bianca; però, fu di nuovo eletto nel 1892.
Un’America diversa, un Congresso spaccato
Altri segni di un’America mutata che l’ex presidente, incapace di autocritica, non coglie nell’esito del voto di midterm sono: l’impatto della decisione della Corte Suprema, che leva la tutela federale al diritto di abortire; la diversità degli eletti (ultimo caso, Karen Bass, la prima sindaca donna e nera di Los Angeles) ; la bocciatura di molti suoi sodali negazionisti del voto del 2020, come quella a cui è andata incontro Kari Lake, ‘anchor’ televisiva, aspirante governatrice dell’Arizona, dove la chitarra che suona è sempre più democratica.
Le elezioni dell’8 novembre – ormai è ufficiale – segnano una spaccatura nel Congresso: il Senato resta democratico, indipendentemente dal ballottaggio in Georgia il 6 dicembre, ma la Camera diventa repubblicana. Il GOP ha ormai raggiunto quota 218 deputati (la maggioranza assoluta), contro i 210 democratici. Restano ancora da assegnare sette seggi. I repubblicani ne hanno finora strappati 18 ai rivali, i democratici soltanto 6.
In questo contesto, i repubblicani non possono imporre al presidente Joe Biden la loro agenda, ma acquisiscono una sorta di diritto di veto su quella presidenziale. Resta da vedere quanto peseranno sui lavori del Congresso le divisioni esistenti nei grandi partiti: al Senato, due senatori democratici, Joe Manchin della West Virginia, e Kirsten Sinema, dell’Arizona, si mettono spesso di traverso; e, alla Camera, il gruppo degli ultra ‘trumpiani’ minaccia sconquassi.
Lo si è già intravisto al momento di scegliere i capigruppo. Al Senato, Mitch McConnell è stato confermato nel ruolo che ha dal 2007 con 37 voti a favore, contro 10 al suo rivale Rick Scott, che gli contestava un risultato elettorale inferiore alle attese. La riconferma arriva anche alla Camera con 188 per Kevin McCarthy. Tuttavia, gliene sono mancati almeno 25 dei deputati già eletti. A inizio gennaio, quando ci sarà da eleggere lo speaker della Camera, McCarthy dovrà fare il pieno, rischiando altrimenti di non avere i 218 suffragi necessari: alcuni ‘trumpiani’ giurano che non lo voteranno mai.
Sia McConnell che McCarthy sono attualmente invisi all’ex presidente, che è stato sempre erratico nei loro confronti, e non si sono sbilanciati sulla sua ricandidatura.
Un Trump a bassa intensità, ma ad alto potenziale
Donald Trump ha annunciato la sua ricandidatura martedì 15 novembre sera a Mar-a-lago, in Florida, proprio mentre il mondo era traversato dall’ansia per i frammenti di missili caduti in Polonia, che hanno ucciso due persone: se ne poteva innescare un allargamento del conflitto tra Russia e Ucraina. Questo ne ha indubbiamente condizionato l’impatto mediatico.
Il magnate ha fatto un discorso che i media liberal hanno definito “a bassa intensità”, al solito infarcito di ripetizioni: “Io” è stata, come sempre, la sua parola preferita. Non sono mancate iperboli (“Sono più perseguitato di Al Capone”), falsità (“Nessuno ha mai avuto più voti di me in un’elezione presidenziale”) e promesse (“Non sarà la mia campagna, ma la vostra … Insieme, sconfiggeremo la sinistra liberal…Faremo di nuovo l’America grande e gloriosa…”).
Trump non si lascia frenare né dagli insuccessi registrati in queste elezioni di metà mandato (i suoi candidati hanno ottenuto la nomination, ma perso le elezioni perché i moderati non li votano) né dalle inchieste che lo riguardano: quella della Camera sulle sue responsabilità nella sommossa del 6 gennaio 2021; quella dell’Fbi sui documenti sottratti alla Casa Bianca – “per il gusto di tenerseli” è la conclusione cui sono giunti gli inquirenti -; quella della Georgia sul tentativo di manipolare i risultati elettorali; quella della magistratura di New York sulle sue pratiche finanziarie e fiscali.
Più di tutto questo, gli toglie un po’ d’energia l’assenza, al suo fianco, della ‘prima figlia’ Ivanka, che si chiama fuori. Presente la moglie Melania, ma per il tycoon è un trofeo da esporre, non un asset su cui contare.
Il New York Times scrive “Basta!”, ma intanto spiega che sarà difficile portargli via la nomination. I media di Rupert Murdoch, inoltre, gli voltano le spalle e fanno il tifo per il suo potenziale antagonista Ron ‘deFuture’ DeSantis, il governatore della Florida. Tuttavia, bisogna ancora vedere chi scenderà davvero in campo per cercare di fermarlo: oltre a DeSantis, si citano il suo ex vice Mike Pence, Nikki Haley, i senatori Ted Cruz e Marco Rubio.
Anche i democratici devono ora tenere conto del ‘fattore Trump’. Biden farà sapere a inizio 2023 se si ricandida o meno: bassa popolarità e palese fragilità potrebbero suggerirgli di non farlo, anche se, dalla sua, ha la vittoria del 2020 e dei risultati di Midterm migliori delle attese. Finché Biden non decide, nessun altro candidato democratico uscirà allo scoperto.
Foto di copertina EPA/CRISTOBAL HERRERA-ULASHKEVICH