La strada della cooperazione fra gli Stati dell’Unione europea per i principi di solidarietà previsti dai Trattati va senz’altro ricercata, tuttavia il percorso dovrà essere sempre compatibile con le norme internazionali poste a tutela dei diritti umani. I nuovi Decreti sugli “sbarchi selettivi” che riconducono le responsabilità di accoglienza agli Stati bandiera delle navi Ong evidenziano un grave vulnus di fronte ad un possibile giudizio di legittimità, anche sotto i profili dei principi di precauzione, adeguatezza e proporzionalità.
I nuovi decreti sugli sbarchi selettivi
Alla fine hanno prevalso l’umanità e il senso di responsabilità dei sanitari nel riconoscere che anche la sola condizione di precarietà psicologica, in una situazione di confinamento su una nave, non può consentire il respingimento di migranti giunti sulle navi delle Ong, cui si era già ritardata l’indicazione di un porto sicuro.
L’ ultimo capitolo delle politiche migratorie dei cosiddetti “sbarchi selettivi” dovrebbe però concludersi definitivamente, perché non sembra perseguibile la linea di attribuire le responsabilità dell’accoglienza agli Stati bandiera riconducibili alle navi che soccorrono i migranti.
Come è noto, il 4 e 6 novembre sono stati emanati decreti interministeriali – dei ministeri dell’Interno, dei Trasporti e della mobilità sostenibile, e della Difesa – con cui si vieta alle navi Humanity 1 – della ong SOS Humanity – e Geo Barents – di Medici Senza Frontiere – di “sostare nelle acque territoriali italiane (…) oltre il termine necessario per assicurare le operazioni di soccorso ed assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali ed in precarie condizioni di salute segnalate dalle competenti autorità nazionali. Per le altre persone non rientranti in tali situazioni viene riservata «l’assistenza necessaria per l’uscita dalle acque territoriali”.
Secondo le dichiarazioni ufficiali i provvedimenti si basano sul principio della sovranità territoriale dello Stato di bandiera, ovvero dello Stato di appartenenza ove le navi sono registrate, secondo principi sanciti dal diritto internazionale consuetudinario e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Convenzione di Montego Bay, United Nations Convention on the Law of the Sea, UNCLOS 1992).
L’articolo 92 della Convenzione espressamente dispone: “Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva”.
Due punti vanno posti in evidenza: c’è l’aspetto della giurisdizione (si pensi a quella penale) che dunque è già limitata all’ ‘alto mare’, il che comporta che nelle ‘acque territoriali’ la nave sia sottoposta in ogni caso alla giurisdizione dello Stato costiero. Principalmente rileva il richiamo a “casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione”.
L’ “eccezionalità”, dunque, può certamente riferirsi alle situazioni disciplinate dal diritto convenzionale riguardanti il soccorso in mare o anche il diritto di asilo, e in generale le misure di accoglienza dei migranti – queste ultime riferite in particolare all’ambito dell’Unione europea – beninteso perché tutte queste sono da ricondursi a norme sovraordinate che concernono la tutela dei diritti umani.
Il conflitto con il diritto internazionale
A questo proposito, è utile richiamare che, per l’ordine liberale e il diritto internazionale, lo jus migrandi è un canone della tradizione liberale classica che affonda le origini nella filosofia politica, da Thomas Hobbes a Francisco de Vitoria, per arrivare a Kant che formulò come “terzo articolo per la pace perpetua” il dovere della “universale ospitalità”.
Sotto il profilo del diritto positivo vale richiamare la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo dove, all’articolo 13, si afferma: “ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”.
L’articolo 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici delinea la libertà dentro uno Stato dell’ “individuo che vi si trovi legalmente”, e questa può essere oggetto di restrizioni per motivi di sicurezza, ordine pubblico e sanità. Ma con un limite: per il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite la legislazione domestica non può derogare agli obblighi internazionali che stabiliscono la prevalenza dei diritti umani, con riferimento ai diritti alla sopravvivenza e alla dignità umana, e quindi pongono oneri correlati per gli Stati per il loro rispetto, anche sotto i canoni dei principi di precauzione, adeguatezza e proporzionalità delle misure amministrative predisposte.
I doveri umanitari nei confronti dei migranti
In questa prospettiva vanno perciò inquadrate anche le previsioni circa l’obbligo di soccorso richiamato in particolare dalla Convenzione internazionale SAR di Amburgo, secondo cui esso non si esaurisce nel solo atto di sottrarre i naufraghi dal pericolo del mare, ma comporta l’obbligo di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. place of safety, nozione richiamata anche in Corte di Cassazione, III sez.penale, Sent. 20 febbraio 2020, n. 6626).
Quanto alla individuazione del “luogo sicuro”, deve trattarsi di “una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie, come cibo, alloggio e cure mediche, possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale”.
Sono peraltro fuorvianti le indicazioni che hanno provato a sostenere l’applicazione sulle navi delle procedure di asilo previsto dal Regolamento di Dublino: è solo a terra che possono garantirsi condizioni idonee per l’asilo temporaneo durante la fase istruttoria dell’istanza e l’esercizio del diritto di difesa, anche nel caso di diniego.
Di fronte a questo quadro giuridico essenziale, hanno quindi avuto ragion d’essere gli inviti all’Italia subito rivolti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dall’ Organizzazione internazionale per le migrazioni di assicurare lo sbarco, nonché dalla Commissione europea a “limitare la permanenza delle persone a bordo delle navi”.
Così come va dato rilievo a quanto rappresentato dalle associazioni di giuristi e umanitarie, fra cui Amnesty International, che sostengono le Ong, le quali hanno richiamato due canoni in particolare:
1) la Risoluzione del Consiglio d’Europa n. 1821 del 21 giugno 2011, secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.);
2) l’assoluto divieto di «trattamenti inumani e degradanti» previsto all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Di quest’ultima non va dimenticato il fondamentale articolo 1: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata».
Prove di legittimità e nuove forme di cooperazione
Sulla base di queste osservazioni la scelta dei Decreti sugli “sbarchi selettivi” ha rilevato dunque un vulnus difficilmente superabile. Sarà difficile, ad esempio, che superi le prove di legittimità, ai vari livelli, una norma che imponga di fatto un respingimento ad una nave battente bandiera norvegese o tedesca che soccorre migranti, obbligandola a circumnavigare l’Europa mediterranea e atlantica e a rimanere in balia ad eventi meteorologici avversi e a precarietà fisiche e psicologiche, dei migranti e dell’equipaggio, che non risulterebbero compatibili con i diritti umani, la dignità delle persone e i principi del soccorso in mare e della tutela dei rifugiati.
La strada della cooperazione fra gli Stati dell’Unione europea per i principi di solidarietà previsti dai Trattati va senz’altro ricercata, e tuttavia non sembra questo il percorso compatibile con le norme internazionali poste a tutela dei diritti umani. Più correttamente, occorrerà insistere sulla definizione di altre misure di coordinamento e coinvolgimento di tutti gli Stati europei nelle operazioni di soccorso e per le predisposizioni dell’accoglienza e dell’asilo.
In questo progetto occorrerà meglio agevolare e non ostacolare le attività delle Ong, cui non a caso l’ultimo report del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha riconosciuto un particolare status, quello di “difensori dei diritti umani”. Sarà perciò giusto perseguire una equa distribuzione dei flussi ma anche la realizzazione di corridoi umanitari europei, sempre in un’ottica di condivisione delle responsabilità e di affermazione dei valori di civiltà da cui è nata l’Europa dei Trattati di Roma che segnano la nascita della “Casa comune europea”.
Non dimenticando quanto già definito dalle Nazioni Unite, dal G7 e dal G20 circa l’effettiva attuazione di un piano mondiale di aiuti perché nei paesi d’origine si contengano i push factor dell’emigrazione.
Foto di copertina ANSA/ORIETTA SCARDINO