Dove non riescono la politica e la guerra, può l’economia. Potrebbe essere questa la sintesi che ha portato all’accordo sul gas tra Israele e Libano, siglato dai due paesi la settimana scorsa. Già, perché formalmente, ancora oggi, il paese dei cedri e quello della stella di Davide sono in guerra e non c’è mai stato un trattato di pace se non una tregua nel 2006 ancora in vigore.
Un passo storico verso la pacificazione?
L’accordo, infatti, non è stato sottoscritto in presenza da entrambi, ma tramite un mediatore statunitense che, come un novello messaggero, ha fatto la spola tra Gerusalemme e Beirut per limare un documento che prevede, oltre allo sfruttamento di giacimenti di gas di notevole portata e importanza non solo economica, anche la definizione dei confini marittimi tra i due stati confinanti – ma non quelli terrestri, ancora oggetto di dispute.
Se non fosse che soprattutto il Libano si trova alla “canna del gas”, in preda a una crisi economica e finanziaria di proporzioni immani, l’accordo sottoscritto l’11 ottobre tra le parti probabilmente non avrebbe avuto corso e non staremmo parlando di un momento storico.
Al di là della portata economica dell’evento, che permetterà al Libano di risollevarsi e a Israele di guadagnare soldi e accreditarsi come potenza mondiale energetica raggiungendo anche l’autosufficienza, la cessazione della disputa sui confini marittimi è sicuramente una pietra miliare nella geopolitica dell’area e un passo avanti importante verso una pacificazione. Anche se non mancano i punti interrogativi.
I limiti e le critiche all’accordo
I due governi che hanno sottoscritto l’accordo, infatti, sono entrambi in scadenza e provvisori. Quello israeliano cesserà subito dopo che uscirà il nuovo governo dalle elezioni che si terranno il primo novembre; il presidente libanese Michel Aoun cesserà il giorno prima. E, ovviamente, le opposizioni alle due leadership hanno espresso riserve sul fatto che si sia firmato un accordo di tale portata in un regime di precarietà politica, che non permette passaggi parlamentari. Il gabinetto israeliano ha approvato a larga maggioranza, con la sola astensione di un ministro, l’accordo definito come storico dal premier Yair Lapid: “Il progetto di accordo è pienamente conforme ai principi presentati da Israele in materia di sicurezza ed economia. Questo è un risultato storico che rafforzerà la sicurezza di Israele, porterà miliardi nell’economia israeliana e garantirà stabilità al confine settentrionale”.
Le critiche sono giunte soprattutto dalla destra e da Netanyahu (in testa ai sondaggi elettorali, anche se questo accordo spinge Lapid più avanti), preoccupati sia del fatto che siano state fatte concessioni ai libanesi, sia che Hezbollah, il gruppo armato foraggiato dall’Iran (nemico giurato di Israele e di stanza nel paese dei cedri) ne possa giovare.
Le autorità libanesi hanno garantito al mediatore americano Amos Hochstein – e quindi a Israele – che nessun provento derivante dallo sfruttamento dei giacimenti oggetti dell’accordo andrà al gruppo terroristico. Il quale, dal lato suo, non si è opposto e ha promesso che vigilerà.
La fine di una disputa marittima
Il prossimo 20 ottobre si dovrebbe arrivare alla firma definitiva attraverso uno scambio di lettere tra Libano e Stati Uniti e Israele e Stati Uniti, poi con lettere dal Libano e Israele all’Onu, depositando l’accordo sui confini marittimi, comprese le coordinate. Le parti hanno convenuto di non presentare ulteriori grafici o coordinate alle Nazioni Unite fotografando la situazione attuale, partendo, quindi, dallo status quo.
L’accordo dovrebbe mettere la parola fine su una lunga disputa su circa 860 chilometri quadrati del Mar Mediterraneo, che copre i giacimenti di gas di Karish e Qana. Il primo si trova, come deciso nell’accordo, in acque israeliane; il secondo in quelle libanesi. Con l’accordo, Israele potrà sfruttare il suo giacimento e prenderà delle royalties dallo sfruttamento di quello libanese. Grazie a questo, entrambi i paesi potranno risollevare una situazione economica che, se per il Libano è disastrosa, per Israele è sicuramente migliore.
Il futuro di Israele come potenza energetica
L’accordo imporrà Tel Aviv come potenza energetica: Karish, infatti, è solo l’ultimo di una serie di giacimenti di gas nei quali Israele sta lavorando. Si stima che il solo giacimento Leviathan, scoperto 130 chilometri a ovest della città portuale di Haifa nel 2010, contenga 535 miliardi di metri cubi di gas naturale. Il Leviathan è il secondo più grande giacimento di gas nel mar Mediterraneo, dopo la scoperta nell’agosto 2015 del giacimento di Zohr al largo delle coste dell’Egitto. Nei primi anni 2000 gli israeliani scoprirono anche il bacino, più piccolo, Tamar, entrato in funzione nel 2013.
Seppur le esplorazioni e lo sfruttamento dei giacimenti oggetto dell’accordo saranno immediati, ci vorranno anni perché questi aiutino sia i due paesi, sia l’Europa ad affrancarsi dalla dipendenza del gas russo.
Israele, insieme a Cipro e Grecia, sta costruendo il gasdotto mediterraneo EastMed, che dovrebbe connettere i giacimenti mediterranei – in particolare Leviathan e il cipriota Aphrodite – con l’Europa, per un terzo in terra e il resto in mare. Non a caso, l’Unione europea ha dichiarato strategico e di interesse comune il progetto in costruzione, finanziandolo con oltre 36 milioni di euro.
L’Italia si è dapprima ritirata e poi successivamente ha accettato il progetto EastMed, che ha un costo stimato di 6 miliardi di euro e si estenderà per quasi 2000 chilometri, ad una profondità di tre chilometri, pompando 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. L’italiana Edison è socia al 50% nel consorzio IG Poseidon (con la greca Depa) che sta realizzando il progetto, mentre tra le società che gestiranno il gasdotto figura l’Eni.
Alternative più rapide a EastMed sono il trasporto da Israele all’Egitto da dove, dopo la liquefazione, il gas israeliano viene spedito in Europa, come avviene tutt’ora. E poi l’interconnettore EuroAsia, un cavo sottomarino che muoverà l’elettricità generata in Israele (dal gas o dalle fonti rinnovabili) verso Cipro e la Grecia.
Foto di copertina EPA/ABIR SULTAN